"We are now living in a G-Zero world, one in which no single country or bloc of countries has the political and economic leverage - or the will - to drive a truly international agenda. The result will be intensified conflict on the international stage over vitally important issue, such international macroeconomic coordination, financial regulatory reform, trade policy, and climate change.This new order has far-reaching implications... waiting for the current era of political end economic uncertain to pass. Many of them can expect an extended wait."

Iann Bremmer and Nouriel Roubini
"A G-Zero world" - Foreign Affairs - March/April 2011



mercoledì 11 dicembre 2013

Il RenminRublo


Per la prima volta il governo di Pechino ha concesso che sul suolo cinese, accanto al Renminbi, possa circolare, con lo stesso valore, una moneta straniera. Il permesso è valido solo per la città di Suifenhe, al confine con la Russia e la moneta è, ovviamente, il rublo russo.
I commerci in città compongono ben il 10% dell’intero valore dell’interscambio sino-russo. Con questa decisione di fatto il governo cinese, ben noto per il suo pragmatismo, non ha fatto altro che rendere legale una pratica già abbondantemente diffusa. Prima che la pericolosa (e prolifica) opacità dei mercati paralleli, invisa dalle parti di Pechino, potesse  avere il sopravvento.
"L’approvazione dell’uso della moneta russa mira a regolarizzare il mercato del cambio del rublo, interrompendo le attività del mercato nero”, ha spiegato recentemente alla stampa cinese, Song Kui, presidente dell’istituto di ricerca economica della provincia di Heilongjiang.
Il rublo può essere depositato e ritirato dalle banche cittadine e chiunque può pagare in rubli i conti denominati in renminbi. Trova così un trionfale riconoscimento quello che negli anni ’80 era un semplice scambio transfrontaliero del quale si giovava la già ben più che logora realtà quotidiana sovietica ad uno dei margini dell’impero. Situazione che nel 1992, ebbe una prima, importante luce verde da parte di Pechino con la decisione di aprire la città di Suifenhe al libero accesso dei consumatori e dei commercianti russi.

L’agenzia di stato Xinhua ha riportato la notizia evidenziandone la valenza di “prima zona pilota”. Come se dovessero in futuro essercene altre.
Inquadrata in tale luce, la mossa cinese potrebbe essere il preludio di un passaggio ad un livello più alto dei rapporti, forse non solo economici, tra Mosca e Pechino.
L’interscambio commerciale tra i due paesi ha raggiunto nel 2012 la quota record di 88 miliardi di dollari, mentre le cifre di 100 e 200 miliardi  sono tra gli obiettivi fissati per il 2015 e per il 2020 e vengono puntualmente ribaditi in occasione delle dichiarazioni alla stampa che seguono gli scambi di visite ufficiali tra i due paesi.
Come ha recentemente osservato Marc Chandler [1] la decisione del governo cinese è del tipo di quelle che raramente sono destinate a rimanere unilaterali. 
E’ probabile, così, che la Russia possa consentire l’uso del Renminbi sul suo suolo in una zona di confine, generando un mercato basato su un tasso di cambio per la prima volta diretto e bilaterale tra le due monete.


[1] http://www.marctomarket.com/2013/12/china-says-no-to-bitcoins-but-yes-to.html

Una via d'uscita per l'Ucraina ? - articolo di Timothy Snyder su NYRB

Mentre la polizia fa dietro front dalle piazze della protesta ucraina, l'esame della situazione nel paese di Timothy Snyder sul sito del New york review of books vale un'attenta lettura. Una prospettiva ampia per un esame a tutto tondo. Ottimo pezzo.

giovedì 5 dicembre 2013

L’autoritarismo di Putin e' senza veli

Pochi sono nella storia russa i momenti non gestiti autocraticamente, e i russi non sono apparsi molto interessati e sensibili alla sostanza democratica del vivere sociale. Assai maggiore attenzione viene data alle ragioni dell’economia, sui cui successi il presidente Putin ha fondato la propria fortuna politica....
Leggi il resto dell'articolo pubblicato sul sito di Aspenia

Secondo la UE l'accordo Southstream e' da rifare

Klaus-Dieter Borchardt, Direttore per i mercati dell'Energia presso la Commissione Europea, ha recentemente affermato che gli accordi che legano la Russia alla Bulgaria, alla Serbia, all'Ungheria, alla Grecia, alla Croazia, alla Slovenia ed all'Austria per la messa in opera del Gasdotto South Stream, non sono in linea con quanto previsto dalla legislazione dell'Unione Europea ed andrebbero ridefiniti.

Le incongruenze principali con le norme dell'UE sarebbero almeno un paio e riguarderebbero il fatto che non e' possibile per Gazprom essere al tempo stesso proprietario della capacita' produttiva e della rete di trasmisisone e che l'accordo manca di un dispositivo che assicuri alle terze parti la possibilita' di accedere alla rete di distribuzione con modalita' non discriminanti.

 Dalle prime dichiarazioni, i russi non sembrano prevedere una riformulazione dell'accordo, cosa che secondo alcuni analisti potrebbe ritardare il progetto per piu' di un anno. "Non ce' nulla che possa escludere la realizzazione del gasdotto", ha dichiarato alla stampa Alexander Medvedev, Direttore per l'export di Gazprom. Gli ha fatto eco il viceministro russo per l'energia, Anatoly Yankovski, che ha detto che la Russia non accetta che le regole dell'Unione possano possano applicarsi a progetti transfrontalieri come i gasdotti.

mercoledì 4 dicembre 2013

Russia, l'autoritarismo non si placa


Sono numerose le analisi degli esperti di relazioni internazionali che descrivono come crescente negli ultimi anni l’arretramento delle democrazie a tutto vantaggio dei sistemi autocratici. L’indice monitorato dalla Freedom House che, attraverso una rigorosa misurazione dei diritti politici e delle libertà civili in giro per il mondo, fotografa annualmente lo stato di salute dei processi democratici, da ben 7 anni evidenzia un netto declino dei processi di autogoverno.

Insieme alla Cina, la Russia è tra i paesi maggiormente sottoposti a critiche da parte dei paesi a tradizione democratico - liberale. Sull’onda della crisi economica internazionale, tutta liberista, secondo il manicheismo esplicativo veicolato dalla maggior parte dei media, la proposta di Mosca di un sistema di “modernizzazione autoritaria” ha attirato a sé una, tutto sommato, compiaciuta attenzione, soprattutto da parte delle elites economiche, anche occidentali. Il vertice sino-russo dello scorso marzo è stato indicato come il momento fondante di un “asse delle autocrazie”.

La stretta dell’autoritarismo russo, che si basa su molti piccoli fatti di cui in pochi si ricorderanno fra qualche anno, fa comunque dimenticare che pochi sono nella storia russa i momenti non gestiti autocraticamente. Difficilmente, del resto, nelle varie rappresentazioni della loro sconfinata ricchezza umana e psicologica, i russi sono apparsi come particolarmente interessati e sensibili alla sostanza democratica del vivere sociale. Non v’è dubbio che ben maggiore attenzione venga data alle ragioni dell’economia, sui cui successi, il presidente Putin ha fondato la propria fortuna politica.
I dati, anche economici dell’ultimo biennio, tuttavia, sembrano evidenziare che la strada intrapresa da Mosca, quella di un progresso dettato dall’alto verso il basso, di una modernizzazione iper-controllata e graduale teleguidata dalle rive della Moscova, si stia dimostrando tutt’altro che destinata al perseguimento di un nuovo “radioso avvenire”. La proposta russa che è difficile definire come del tutto originale rispetto a quella di epoca sovietica, non può certo dirsi estranea ed ininfluente ad un decadimento, non solo economico, che sta interessando il paese. La personalizzazione del potere, la necessità sempre più sentita dal Cremlino di rinverdire la rivendicazione del ruolo di grande potenza, la fusione, tutt’altro che in ritirata, tra potere e proprietà, riportano a galla antichi tratti, mutuati con successo, almeno fino a qualche tempo fa, dalla  Russia post-comunista. Qui, il potere ha sostituito l’ideologia con il pragmatismo, ha immesso nelle vene di una società in via di diversificazione e segmentazione una discreta parte delle rendite provenienti dagli alti corsi dei prezzi delle materie prime ed ha riconosciuto una sostanziale libertà personale accanto all’esercizio di una decisa repressione selettiva contro i gruppi di opposizione meglio organizzati. Il limite di una proposta di scambio tra l’intramontabile mito della stabilità politico sociale e della crescita economica ed il rigido controllo sulla vita politica, è però stato portato con ogni evidenza a galla dalle proteste di piazza a cavallo tra la fine del 2011 e l’inizio del 2012.

Si è trattato di una protesta che ha imbarazzato lo stesso Cremlino. Difficilmente, infatti, poteva essere declassata a solita routine anti-sistema, contraria cioè alla costante espansione della sfera del sistema politico statale di controllo sulla società, orchestrata dai soliti perfidi agenti stranieri, dal momento che reclamava la realizzazione di consultazioni elettorali che fossero lontane da ogni sospetto di interventi di manovra dall’alto. La contestazione ha portato per la prima volta sotto i riflettori della vita politica russa, mai sembrata, nei fatti, così “pluralista”, una nuova generazione di giovani, ora in età di agire, che non ha mai conosciuto direttamente l’Unione Sovietica. Come ha segnalato recentemente lo scrittore Viktor Eurofeev, da quel momento è evidente lo scontro in atto tra due russie: la prima vuole mantenere il controllo dello stato sulle persone, la seconda vuole il contrario: uno stato subordinato alle necessità ed alle richieste della gente. I casi delle Pussy Riot, di Alexej Navalny e dell’arresto degli attivisti di Green Peace, con la narrativa che si sono portati dietro, hanno evidenziato che nella vita politica russa non c’è più solo il Cremlino. La nuova generazione appare confusa: non ama affatto gli Stati Uniti e guarda all’Europa con lo stesso interesse di un adolescente che guarda ad una vecchia signora sulla panchina di in una casa di riposo, ma è pronta a fare carte false per un permesso di residenza in Bulgaria. Così come la Russia ha probabilmente smesso di essere una grande potenza ed è alla ricerca affannosa di un ruolo, una parte crescente dei suoi cittadini, secondo Eurofeev, ha smarrito quei valori tradizionali che danno vita ad un popolo ed è ancora alla ricerca di una forma che ne faccia una nazione moderna. Va inoltre ricordato che alle due russie appena richiamate se ne aggiungono almeno altre due: quella delle grandi, moderne città, segnatamente Mosca e San Pietroburgo, e quella delle province svantaggiate.  Il contrasto tra le due rimane, come in passato, sempre molto ben marcato, forse stridente, ma sono molti i sondaggi di opinione e le analisi sociologiche russe che mostrano quanto i russi delle provincie siano comunque tutt’altro che contenti del potere centrale che decidendo direttamente i rappresentanti locali, sotto i loro occhi si rivela nelle forme di una classe politica corrotta che non si preoccupa neppure di assicurare un livello, sia pure minimo, di servizio pubblico. Anche nella stessa chiesa ortodossa sembrerebbero essere in atto dei cambiamenti. Come conseguenza delle dispute seguite alle elezioni presidenziali del dicembre del 2012, sono venute allo scoperto da parte di un numero sempre crescente di esponenti della intellighentsia ortodossa laica, forti critiche alla simbiosi delle gerarchie ecclesiali con il Cremlino. Lo stesso Patriarca Kirill ha recentemente preso posizioni più attente per limitare il ruolo della chiesa ortodossa in materia politica. Ultimo caso in tal senso è la freddezza evidenziata da Kirill in occasione della presentazione di un emendamento che prevede l’inserimento nella carta costituzionale di una previsione secondo la quale la identità nazionale russa si basa sull’ortodossia cristiana. Nelle gerarchie ecclesiali si starebbe facendo strada il timore che l’automatico supporto a qualsiasi iniziativa del Cremlino, possa essere la causa della calante partecipazione dei credenti alla vita della chiesa cristiana ortodossa.

Nel frattempo, l’assertività dell’autoritarismo russo in politica estera aumenta gli ambiti di incomprensione con la UE. Una percezione che è in stridente controtendenza con l’accresciuta importanza economica della Russia in Europa nell’ultimo decennio, giornalmente elargita attraverso le condotte delle materie prime energetiche. In più di un’occasione, non solo dall’opinione pubblica europea ma, quel che più importa al Cremlino, anche da molte cancellerie europee, sono arrivate critiche esplicite all’operato delle forze di sicurezza russe nei confronti delle organizzazioni non governative occidentali attive in Russia. Si rammenti a solo titolo di esempio il caso di Human Rights Watch e Transparency International. Occasioni nelle quali persino il compassato Frankfurt Algemaine Zeitung ebbe a dichiarare che “Dal ritorno al posto di presidente da parte di Putin, si può osservare che un regime autoritario – che ancora tollera un ristretto livello di libertà in alcune nicchie della società, quando non critico del potere statale – si stia lentamente trasformando in una dittatura in “buona fede”.
A tutto questo, si aggiunga la recentissima conclusione, imposta a Kiev dal Cremlino, della possibilità di dare vita ad una associazione tra l’UE ed i paesi dell’Est Europa, argomento sul quale lo stesso antagonismo russo, già sperimentato in tema di politiche di sicurezza - si pensi alle reazioni all’espansione della NATO -, si è materializzato nel minaccioso impedimento della conclusione di un accordo di associazione con l’Ucraina, sancito qualche giorno fa a Vilnius. Altrettanta identica assertività la Russia la sta profondendo, sullo stesso tema, con la Moldavia e la Bielorussia, con la Georgia e da ultimissimo, addirittura con la Serbia. Fermo restando l’intervento a dir poco muscolare di Mosca, è difficile dire fino a che punto si è trattato di un caso in cui il governo ucraino abbia giocato la parte della “vittima” che ha ricevuto dal Cremlino “un’offerta che non si può rifiutare”, quanto piuttosto, come suggerisce Lilia Shevtsova, pure mai tenera nei confronti del Cremlino, di un episodio che debba indurre Bruxelles a riconoscere la limitata attrattività del modello di partnership offerto dall’Unione Europea. La proposta europea, gestita dalla tecnocrazia di Bruxelles, troppo poco flessibile nella sua rigidità “normativa”, non poteva essere realmente appetibile per un governo come quello di Kiev. “La situazione confina con l’assurdo”, fa osservare la Shvetsova “come può un governo autoritario che non segue il principio di legalità, accettare le regole derivanti dalle leggi dell’Unione Europea?”


Giovanni Mafodda