Sono numerose le analisi degli esperti di relazioni internazionali che descrivono
come crescente negli ultimi anni l’arretramento delle democrazie a tutto
vantaggio dei sistemi autocratici. L’indice monitorato dalla Freedom House che,
attraverso una rigorosa misurazione dei diritti politici e delle libertà civili
in giro per il mondo, fotografa annualmente lo stato di salute dei processi
democratici, da ben 7 anni evidenzia un netto declino dei processi di
autogoverno.
Insieme alla Cina, la Russia è tra i paesi maggiormente sottoposti a critiche da
parte dei paesi a tradizione democratico - liberale. Sull’onda della crisi
economica internazionale, tutta liberista, secondo il manicheismo esplicativo
veicolato dalla maggior parte dei media, la proposta di Mosca di un sistema di
“modernizzazione autoritaria” ha attirato a sé una, tutto sommato, compiaciuta attenzione,
soprattutto da parte delle elites economiche, anche occidentali. Il vertice
sino-russo dello scorso marzo è stato indicato come il momento fondante di
un “asse delle autocrazie”.
La stretta dell’autoritarismo russo, che si basa su molti piccoli fatti
di cui in pochi si ricorderanno fra qualche anno, fa comunque dimenticare che pochi
sono nella storia russa i momenti non gestiti autocraticamente. Difficilmente, del
resto, nelle varie rappresentazioni della loro sconfinata ricchezza umana e psicologica,
i russi sono apparsi come particolarmente interessati e sensibili alla sostanza
democratica del vivere sociale. Non v’è dubbio che ben maggiore attenzione
venga data alle ragioni dell’economia, sui cui successi, il presidente Putin ha
fondato la propria fortuna politica.
I dati, anche economici dell’ultimo biennio, tuttavia, sembrano evidenziare
che la strada intrapresa da Mosca, quella di un progresso dettato dall’alto
verso il basso, di una modernizzazione iper-controllata e graduale teleguidata
dalle rive della Moscova, si stia dimostrando tutt’altro che destinata al
perseguimento di un nuovo “radioso avvenire”. La proposta russa che è difficile
definire come del tutto originale rispetto a quella di epoca sovietica, non può
certo dirsi estranea ed ininfluente ad un decadimento, non solo economico, che
sta interessando il paese. La personalizzazione del potere, la necessità sempre
più sentita dal Cremlino di rinverdire la rivendicazione del ruolo di grande
potenza, la fusione, tutt’altro che in ritirata, tra potere e proprietà, riportano
a galla antichi tratti, mutuati con successo, almeno fino a qualche tempo fa,
dalla Russia post-comunista. Qui, il
potere ha sostituito l’ideologia con il pragmatismo, ha immesso nelle vene di
una società in via di diversificazione e segmentazione una discreta parte delle
rendite provenienti dagli alti corsi dei prezzi delle materie prime ed ha
riconosciuto una sostanziale libertà personale accanto all’esercizio di una
decisa repressione selettiva contro i gruppi di opposizione meglio organizzati.
Il limite di una proposta di scambio tra l’intramontabile mito della stabilità
politico sociale e della crescita economica ed il rigido controllo sulla vita
politica, è però stato portato con ogni evidenza a galla dalle proteste di
piazza a cavallo tra la fine del 2011 e l’inizio del 2012.
Si è trattato di una protesta che ha imbarazzato lo stesso Cremlino. Difficilmente,
infatti, poteva essere declassata a solita routine anti-sistema, contraria cioè
alla costante espansione della sfera del sistema politico statale di controllo sulla
società, orchestrata dai soliti perfidi agenti stranieri, dal momento che
reclamava la realizzazione di consultazioni elettorali che fossero lontane da
ogni sospetto di interventi di manovra dall’alto. La contestazione ha portato per
la prima volta sotto i riflettori della vita politica russa, mai sembrata, nei
fatti, così “pluralista”, una nuova generazione di giovani, ora in età di
agire, che non ha mai conosciuto direttamente l’Unione Sovietica. Come ha
segnalato recentemente lo scrittore Viktor Eurofeev, da quel momento è evidente
lo scontro in atto tra due russie: la prima vuole mantenere il controllo dello
stato sulle persone, la seconda vuole il contrario: uno stato subordinato alle
necessità ed alle richieste della gente. I casi delle Pussy Riot, di Alexej
Navalny e dell’arresto degli attivisti di Green Peace, con la narrativa che si
sono portati dietro, hanno evidenziato che nella vita politica russa non c’è
più solo il Cremlino. La nuova generazione appare confusa: non ama affatto gli
Stati Uniti e guarda all’Europa con lo stesso interesse di un adolescente che
guarda ad una vecchia signora sulla panchina di in una casa di riposo, ma è
pronta a fare carte false per un permesso di residenza in Bulgaria. Così come
la Russia ha probabilmente smesso di essere una grande potenza ed è alla
ricerca affannosa di un ruolo, una parte crescente dei suoi cittadini, secondo
Eurofeev, ha smarrito quei valori tradizionali che danno vita ad un popolo ed è
ancora alla ricerca di una forma che ne faccia una nazione moderna. Va inoltre
ricordato che alle due russie appena richiamate se ne aggiungono almeno altre
due: quella delle grandi, moderne città, segnatamente Mosca e San Pietroburgo,
e quella delle province svantaggiate. Il
contrasto tra le due rimane, come in passato, sempre molto ben marcato, forse
stridente, ma sono molti i sondaggi di opinione e le analisi sociologiche russe
che mostrano quanto i russi delle provincie siano comunque tutt’altro che
contenti del potere centrale che decidendo direttamente i rappresentanti
locali, sotto i loro occhi si rivela nelle forme di una classe politica
corrotta che non si preoccupa neppure di assicurare un livello, sia pure
minimo, di servizio pubblico. Anche nella stessa chiesa ortodossa sembrerebbero
essere in atto dei cambiamenti. Come conseguenza delle dispute seguite alle
elezioni presidenziali del dicembre del 2012, sono venute allo scoperto da parte
di un numero sempre crescente di esponenti della intellighentsia ortodossa laica, forti critiche alla simbiosi delle
gerarchie ecclesiali con il Cremlino. Lo stesso Patriarca Kirill ha
recentemente preso posizioni più attente per limitare il ruolo della chiesa
ortodossa in materia politica. Ultimo caso in tal senso è la freddezza
evidenziata da Kirill in occasione della presentazione di un emendamento che
prevede l’inserimento nella carta costituzionale di una previsione secondo la
quale la identità nazionale russa si basa sull’ortodossia cristiana. Nelle
gerarchie ecclesiali si starebbe facendo strada il timore che l’automatico
supporto a qualsiasi iniziativa del Cremlino, possa essere la causa della
calante partecipazione dei credenti alla vita della chiesa cristiana ortodossa.
Nel frattempo, l’assertività dell’autoritarismo russo in politica estera
aumenta gli ambiti di incomprensione con la UE. Una percezione che è in
stridente controtendenza con l’accresciuta importanza economica della Russia in
Europa nell’ultimo decennio, giornalmente elargita attraverso le condotte delle
materie prime energetiche. In più di un’occasione, non solo dall’opinione
pubblica europea ma, quel che più importa al Cremlino, anche da molte
cancellerie europee, sono arrivate critiche esplicite all’operato delle forze
di sicurezza russe nei confronti delle organizzazioni non governative occidentali
attive in Russia. Si rammenti a solo titolo di esempio il caso di Human Rights
Watch e Transparency International. Occasioni nelle quali persino il compassato
Frankfurt Algemaine Zeitung ebbe a dichiarare che “Dal ritorno al posto di
presidente da parte di Putin, si può osservare che un regime autoritario – che
ancora tollera un ristretto livello di libertà in alcune nicchie della società,
quando non critico del potere statale – si stia lentamente trasformando in una
dittatura in “buona fede”.
A tutto questo, si aggiunga la recentissima conclusione, imposta a Kiev
dal Cremlino, della possibilità di dare vita ad una associazione tra l’UE ed i
paesi dell’Est Europa, argomento sul quale lo stesso antagonismo russo, già
sperimentato in tema di politiche di sicurezza - si pensi alle reazioni all’espansione
della NATO -, si è materializzato nel minaccioso impedimento della conclusione
di un accordo di associazione con l’Ucraina, sancito qualche giorno fa a
Vilnius. Altrettanta identica assertività la Russia la sta profondendo, sullo
stesso tema, con la Moldavia e la Bielorussia, con la Georgia e da ultimissimo,
addirittura con la Serbia. Fermo restando l’intervento a dir poco muscolare di
Mosca, è difficile dire fino a che punto si è trattato di un caso in cui il
governo ucraino abbia giocato la parte della “vittima” che ha ricevuto dal
Cremlino “un’offerta che non si può rifiutare”, quanto piuttosto, come
suggerisce Lilia Shevtsova, pure mai tenera nei confronti del Cremlino, di un
episodio che debba indurre Bruxelles a riconoscere la limitata attrattività del
modello di partnership offerto dall’Unione Europea. La proposta europea, gestita
dalla tecnocrazia di Bruxelles, troppo poco flessibile nella sua rigidità “normativa”,
non poteva essere realmente appetibile per un governo come quello di Kiev. “La
situazione confina con l’assurdo”, fa osservare la Shvetsova “come può un
governo autoritario che non segue il principio di legalità, accettare le regole
derivanti dalle leggi dell’Unione Europea?”
Giovanni Mafodda
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